Cari tutti e tutte
dispiace non essere qui con voi fisicamente a questa manifestazione ma con
queste mie parole non voglio far cadere nel vuoto la richiesta di partecipazione
alla manifestazione di oggi che con entusiasmo Gaetano e Alessandro mi hanno
rivolto.
Il lavoro, che per
fortuna oggi c’è mi tiene lontano da questa piazza, ma non è detto che non ci
saranno occasioni di rivederci, perché l’auspicio è che la mobilitazione non
termini oggi.
Molto spesso vi vedo incamminare verso il liceo e noto delle
differenze con gli adolescenti del mio tempo, ma queste sono del tutto
esteriori. Le condizioni sociali e prospettiche sono le stesse o anzi
peggiorate e quindi l’alleanza tra lavoratori e studenti (i lavoratori del
domani) deve essere più salda che mai.
Vi guardo è penso con rammarico che alla vostra età avrei dovuto usare meglio
il cervello per studiare i modi per non farmi fregare dai parolai,
usare meglio le mani per imparare arti e mestieri che stupidamente vengono
considerati poveri invece sono umili e ricchi,
usare gli occhi per guardare il futuro che è il posto in cui abito invece che
guardare l’attimo che è già passato,
usare la voce con tono sicuro per
esprimere le mie sensazioni e malumori,
usare meglio il cuore per non avere paura dei miei sentimenti e timori.
A tutto si può rimediare tranne al tempo che passa, ma
questo non vuol dire che non siamo in tempo di rimediare ai rimorsi e a
correggere la rotta.
Perché il tempo è dalla nostra parte.
Abbiamo più diritto al futuro di altri ma questo vuol dire
partecipare alla vita pubblica e quindi assumersi responsabilità. Può sembrare
stupido farlo da ragazzi! Perché affaticarsi, lottare, arrabbiarsi, informarsi
ora che viviamo la spensierata età
dell’adolescenza?
Invece i motivi sono tanti, inoltre assumersi delle responsabilità non è così
fastidioso come sembra…se si è in tanti può essere una festa.
Chi vuole che nulla cambi o che le cose cambino per non
cambiare mai soffre l’attivismo, i sorrisi sinceri e gli animi che non hanno
nulla da perdere.
Noi siamo, tutti insieme, una generazione che non ha nulla
da perdere. Crediamo che non convenga partecipare, che è meglio farsi gli
affari propri perché altrimenti perdiamo quello che abbiamo. Ma non abbiamo
niente. È tutto in mano ai soliti.
Non siamo neanche liberi in quanto parafrasando Gaber si è
liberi solo se si partecipa.
Quello che non potranno mai avere è il nostro
entusiasmo…però posseggono l’interruttore. Posso spegnerlo con secchiate di
cinismo, con i sorrisetti infimi, le battutine ficcanti, o con la lingua
velenosa. Diranno che siete dei buoni a nulla, buoni solo a perdere una
giornata di scuola. Per qualcuno sicuramente è così ma sta sprecando una
possibilità. La possibilità di stare insieme.
Insieme!!!
Il significato di
questa parola si perde tra selfie con la bocca a culo di gallina e milioni di
messaggi inviati con whatsapp. Ci fanno credere che abbiamo il mondo a portata
di click invece siamo soli davanti ad uno schermo.
Abbiamo bisogno di luoghi di aggregazione, di comunicare con
gli occhi, di guardarci in faccia. Di creare.
Di fare qualcosa insieme. Di stare insieme. Con gli
smartphone spenti. Insieme facciamo paura!
Insieme si crea
fermento. Ragazzi e ragazzi che creano dibattiti,si interrogano, portano
esperienze da poter replicare di conseguenza creano fermento. Sono lievito.
Lievito per impastare del buon pane quotidiano al posto
della merda di cui ci riempiono il cervello e assopiscono i nostri desideri.
Insieme smoviamo le acque della palude in cui i gattopardisti
affogano le nostre speranze.
Con il precariato tutto è stato rinviato più in la con
l’età. Lavoro, famiglia, figli, una casa propria. Ci vogliono rendere degli
eterni bambini ( infondo tutti invidiamo i bambini) invece dobbiamo diventare
grandi subito. È un’esigenza. Il tempo è dalla nostra parte ma non è per
sempre.
Beffardamente sul cancello di Auschwitz i nazisti hanno
messo la scritta “il lavoro rende liberi”. L’odierna dittatura del profitto
trasforma gli esseri umani in pedine. Considera il lavoratore delle risorse
definite umane così come i computer sono risorse meccaniche.
Ma i lavoratori sono uomini e donne che hanno bisogno del
lavoro per essere liberi. Liberi di essere ciò che si desidera diventare.
Liberi di essere semplicemente ciò che si è.
Con un lavoro precario tutto diventa precario, come l’amore.
Anche i sentimenti diventano usa e getta.
Formare una famiglia diventa impossibile.
La politica invece di trovare delle soluzioni inventa
formule magiche. Come gli 80 euro di Renzi.
Ma non saranno gli 80 euro promessi alle neo-mamme a risollevare il tasso di
crescita delle nascite se dall’altro verso si continua a tagliare il
finanziamento degli asili nido.
Le politiche dei bonus, dei voucher, sono in genere storicamente politiche liberali e/o emergenziali perché - al contrario del welfare universale - si rivolgono ad una certa platea e per un certo periodo, quando invece dovrebbero parlare a tutti. Contrastammo ferocemente il bonus bebè di Berlusconi (1000 euro l'anno, quindi la stessa cifra), e siamo stati molto critici su quello adottato dalla Fornero e dal Governo Letta, proprio perché avevano il grande limite di tagliare fuori una fetta consistente di beneficiari, di rappresentare una politica spot. In altri paesi d'Europa esistono sostegni alla genitorialità, ma sono universali, sono erogati in nazioni in cui si spende 5 volte di più che in Italia in servizi sociali, esiste il reddito minimo garantito e non si rivolgono certo alle "neomamme" (e i papà?) che guadagnano meno di 1500 euro lordi al mese. Anche perché sappiamo tutti che 80 euro al mese non cambiano la vita se l'idea è quella di farti decidere di procreare. Soprattutto, si parla di tagliare altri servizi come al solito?. E' bello andare da Barbara D'Urso a dire che regali soldi in giro (80 euro in busta paga, 80 euro alle neomamme, taglio la componente lavoro dell'IRAP, adotto meno prelievo sulle partite IVA svantaggiate, etc.) e poi lontano dai riflettori andare in conferenza Stato Regioni e dire che taglierai le borse di studio, i buoni libri di testo, i trasporti per i disabili, i trasferimenti sui trasporti pubblici e la coesione sociale, 4 miliardi di spesa corrente. Ma di che parliamo? Ti do 80 euro al mese per 3 anni per convincerti a procreare, ma il figlio che metti al mondo augurati che non abbia mai bisogno di cure mediche, di supporti educativi, di prendere un autobus in periferia, perché altrimenti sono cazzi suoi.
Poi hanno anche la faccia di dire che la famiglia è messa
in pericolo dalle unione omosessuali. Io non riesco ancora a comprendere in che
modo il matrimonio tra due maschi o due donne mi impedisca di formare una
famiglia. Io non riesco a comprendere chi trova ancora il coraggio di mettere
su famiglia, siano essi etero o omosessuali, e a loro va la mia stima e
sostegno. Le politiche sociali, del lavoro e formative non si possono
distinguere dai diritti civili e purtroppo l’ordinamento dello Stato italiano
non riconosce ai suoi cittadini dei diritti legalizzando la disuguaglianza.
Per colpa dello Stato che non riconosce diritti o non
pianifica politiche sociali, ci sono famiglie di serie A e di serie B, così come
ci sono lavoratori di serie superiori e inferiori. Con l’abolizione dell’art
18, il presidente Renzi, come Berlusconi e Monti, vuole rendere i lavoratori
tutti uguali: dei lavoratori di serie B. anzi di serie R, R come ricattabili.
Quando il premier e segretario del più grande partito
socialista d’Europa – il PD renziano, aderisce al PSE – dice che
“l’imprenditore deve poter licenziare” – come e quando vuole, aggiungo io – ,
“che la scelta di licenziare o no un lavoratore non deve essere nelle mani di
un giudice”, sceglie chiaramente il campo in cui stare (che non è quello del
lavoro) e riafferma dei capisaldi culturali antichi, che proprio la famiglia
politica che dovrebbe rappresentare è riuscita in un secolo di storia e di
lotta a rivoluzionare. C’è ormai una deriva inarrestabile che vede tutti i
partiti di centrosinistra europei farsi sedurre dalle sirene del pensiero
main-stream. Non voglio chiamarlo di destra. Preferisco definirlo pensiero
unico, assoluto, dominante. Questo perché nell’Europa del 2014 molti dei
governi sono di larghe intese, in cui le culture politiche un tempo contrapposte
si confondono l’una con l’altra. Dove le differenze fra destra e sinistra non
contano più e spesso si fa pure fatica a intravederle. Un pensiero che trova la
sua rappresentazione più limpida nell’idea del pragmatismo come unica bussola
per orientare le scelte, nel primato della tecnica sulla politica, nel piglio
sfrontato e decisionista dei suoi leader. Determinanti che cambiano i rapporti
politici nella società, in cui i capi delle fazioni prevalenti, a braccetto con
la grande finanza, controllano progressivamente sempre di più tutti gli snodi
delle decisioni politiche ed economiche che hanno pesantissime ricadute sociali
sui “popoli sovrani”.
Cambiano e tornano ad essere quelli di un tempo poi i
rapporti materiali, che si determinano nel solco della regressione di un
modello che diviene oligarchico e semi-feudale in cui il lavoro è senza tutele,
precarizzato a partire dal rapporto contrattuale, ricattabile in ogni momento e
desinato a salari sempre più bassi. Tutto ciò avviene paradossalmente proprio nel
momento di massima crisi del capitalismo. E se la politica davanti a questo
passaggio epocale sembra essere muta e stordita, il capitale invece si difende
e si ristruttura, aggredisce i diritti e riduce gli spazi di democrazia. E gli
stessi soggetti che ci hanno trascinato nel baratro, oggi ci spiegano come
uscirne perpetuando le stesse politiche. Non trovando sostanziali difficoltà e
ostacoli nel farlo.
Prendiamo per esempio la questione dell’articolo 18. Un
dibattito surreale, che trova la sua rappresentazione mediatica nello scontro
Renzi-D’Alema/minoranza PD. E non è difficile immaginare chi vinca. Questo
perché per vent’anni quelli che oggi si spellano le mani in difesa di questa
tutela nello specifico, sono i primi che hanno contribuito all’istituzionalizzazione
della precarietà. E la loro credibilità è dunque pari a zero. Oltre alla
rappresentazione mediale, ad esser surreale è soprattutto nello specifico la
questione politica di questo dibattito. Per i ragazzi della mia generazione – e
non solo direi – l’articolo 18 rappresenta esclusivamente un istituto giuridico
che ha un altissimo valore simbolico. Niente di più però. Questo non significa
che non ci spenderemo nei mesi che verranno per difendere lo Statuto dei
Lavoratori e tutto quello che significa. Anzi. Siamo i primi ad affermare che è
molto più ideologico chi come Renzi e soci pone il tema dello smantellamento
dell’articolo 18 rispetto a chi invece come noi lo vuole difendere con le
unghie. E a dirlo non sono io, ma i dati. Il CNEL – non una pericolosissima
organizzazione bolscevica – nel suo ultimo rapporto nazionale afferma che in
Italia licenziare è più facile che in Germania e che il livello di
liberalizzazione del mercato del lavoro negli ultimi 15 anni è stato il più
sfrenato di Europa, con la sola eccezione di Atene. L’idea che a scoraggiare
gli investitori stranieri sia l’eccessiva rigidità delle regole in materia di
lavoro è quindi poco più che una leggenda. E allora quale è la logica che lega
l’abolizione dell’articolo 18 alla possibilità di incrementare l’occupazione?
Nessuna, ovviamente. La questione è esclusivamente ideologica, appunto.
Con la disoccupazione giovanile che sfonda la soglia del
44%, con quella generale oltre il 12%; con oltre 5 milioni di precari dove più
di 1 giovane su 2 ha un lavoro atipico, con oltre 2 milioni di giovani che non
studiano e non lavorano, la preoccupazione principale del governo Renzi è
quella di cancellare quel maledetto articolo 18 che risolve appena qualche
migliaio l’anno di controversie sul lavoro. Lungimirante, non c’è che dire.
Vogliamo invece provare a parlare seriamente dei problemi di questo paese?
Bisognerebbe smetterla di pensare che licenziando di più si crea posti di
lavoro. È una mistificazione della realtà! Per creare occupazione ci vorrebbe
una politica industriale seria, che manca. E ci vogliono soprattutto
investimenti. Per sconfiggere la precarietà invece, non basta annunciare un
contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti se si lasciano intatte 46
forme contrattuali differenti. Bisogna fare di più. Iniziando per esempio a
comprendere che oggi la precarietà non è solo una questione che riguarda il
mercato del lavoro ma è purtroppo per milioni di persone una questione
esistenziale. E quindi, una politica che si definisce tale, capace di abitare
il nostro tempo, dovrebbe iniziare a preoccuparsi di come si possa garantire
una vita dignitosa al di fuori del lavoro e una continuità di reddito nella
giungla del lavoro a intermittenza. Ed è a partire da questi presupposti che la
rete Tilt!, BIN e altri soggetti, lo scorso anno hanno sottoposto al parlamento
una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione di un reddito
minimo garantito anche nel nostro paese.
Come avviene praticamente in tutta Europa. Per usare gli
esempi fatti da Matteo Renzi, Marta e Giuseppe (due precari idealizzati) se
fossero una coppia in Olanda percepirebbero 1.319 euro mensili e se Marta fosse
single sempre in Olanda avrebbe un sussidio di base di 659 euro. Se Giuseppe
vivesse in Belgio avrebbe un sussidio di 755 euro, se avesse un figlio a suoi
carico percepirebbe 1.006 euro e un contributo per l’affitto. Se Marta vivesse
in Francia avrebbe garantiti 467 euro e un contributo eventuale per l’affitto.
Se Giuseppe vivesse in Inghilterra avrebbe 303 euro di reddito di base, 715 per
la casa e 377 nel caso avesse un figlio a suo carico. Se Marta vivesse in
Irlanda avrebbe invece un sussidio per l’alloggio dai 300 ai 450 euro mensili e
in più, in caso di necessità, altri contributi per le utenze. Se Giuseppe
infine vivesse in Austria avrebbe un sussidio dai 401 ai 512 euro mensili, con
un figlio a carico dai 594 ai 746 euro. I Marta e i Giuseppe che vivono in
Italia invece, si sentono dire che la colpa della situazione e dei loro
genitori perché sono dei privilegiati solo perché hanno dei diritti. E che
quindi l’unica soluzione è togliere ai padri per dare ai figli. Ma noi in
questa guerra non ci vogliamo stare. Noi chiediamo una rivoluzione del welfare
sui modelli virtuosi di quell’Europa che vogliamo conquistare. Vogliamo un
welfare universale. I soldi? Ci sono. Pensiamo alla pioggia di miliardi che
viene erogata per gli incentivi alle imprese che in 15 anni non hanno certo
creato occupazione. Le imprese avrebbero bisogno di vedersi ridurre il costo
del lavoro, non di incentivi. Pensiamo ai miliardi spesi per tenere in piedi un
sistema di collocamento inefficiente e obsoleto, che serve esclusivamente per
foraggiare i professionisti della formazione senza collocare nessuno. Dovremmo
avere il coraggio di dire poi, che l’attuale sistema di ammortizzatori sociali
deve essere rivisto completamente, perché così com’è protegge solo un piccolo
segmento di società e lascia fuori tutto il resto.
Tagliamo seriamente i costi della politica e della
burocrazia, non nella direzione di ridurre la democrazia ma gli sprechi.
Tagliamo le spese militari e con tutti i soldi che risparmiamo finanziamo uno
strumento davvero universale. Senza questi presupposti non esiste Job Act che
tenga. Il conflitto sociale non è situato dove viene rappresentato
quotidianamente dai mezzi di informazione o dai politici che ci governano. Sta
dall’altra parte. Oggi, oltre alla parola insieme e fermento dobbiamo inserire
nel nostro vocabolario la parola libertà. Libertà di formarsi. Libertà dal
ricatto della precarietà.
Rimaniamo insieme, creiamo fermento, sentiamoci veramente
liberi
Grazie a tutti e a tutte