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giovedì 11 dicembre 2014

Sciopero Generale del 12 dicembre. lettera ai più giovani

Cari tutti e tutte
dispiace non essere qui con voi fisicamente a questa manifestazione ma con queste mie parole non voglio far cadere nel vuoto la richiesta di partecipazione alla manifestazione di oggi che con entusiasmo Gaetano e Alessandro mi hanno rivolto.
 Il lavoro, che per fortuna oggi c’è mi tiene lontano da questa piazza, ma non è detto che non ci saranno occasioni di rivederci, perché l’auspicio è che la mobilitazione non termini oggi.
Molto spesso vi vedo incamminare verso il liceo e noto delle differenze con gli adolescenti del mio tempo, ma queste sono del tutto esteriori. Le condizioni sociali e prospettiche sono le stesse o anzi peggiorate e quindi l’alleanza tra lavoratori e studenti (i lavoratori del domani) deve essere più salda che mai.
Vi guardo è penso con rammarico che alla vostra età avrei dovuto usare meglio il cervello per studiare i modi per non farmi fregare dai parolai,
usare meglio le mani per imparare arti e mestieri che stupidamente vengono considerati poveri invece sono umili e ricchi,
usare gli occhi per guardare il futuro che è il posto in cui abito invece che guardare l’attimo che è già passato,
usare la voce con tono sicuro  per esprimere le mie sensazioni e malumori,
usare meglio il cuore per non avere paura dei miei sentimenti e timori.
A tutto si può rimediare tranne al tempo che passa, ma questo non vuol dire che non siamo in tempo di rimediare ai rimorsi e a correggere la rotta.
Perché il tempo è dalla nostra parte.
Abbiamo più diritto al futuro di altri ma questo vuol dire partecipare alla vita pubblica e quindi assumersi responsabilità. Può sembrare stupido farlo da ragazzi! Perché affaticarsi, lottare, arrabbiarsi, informarsi ora che  viviamo la spensierata età dell’adolescenza?
Invece i motivi sono tanti, inoltre assumersi delle responsabilità non è così fastidioso come sembra…se si è in tanti può essere una festa.
Chi vuole che nulla cambi o che le cose cambino per non cambiare mai soffre l’attivismo, i sorrisi sinceri e gli animi che non hanno nulla da perdere.
Noi siamo, tutti insieme, una generazione che non ha nulla da perdere. Crediamo che non convenga partecipare, che è meglio farsi gli affari propri perché altrimenti perdiamo quello che abbiamo. Ma non abbiamo niente. È tutto in mano ai soliti.
Non siamo neanche liberi in quanto parafrasando Gaber si è liberi solo se si partecipa.
Quello che non potranno mai avere è il nostro entusiasmo…però posseggono l’interruttore. Posso spegnerlo con secchiate di cinismo, con i sorrisetti infimi, le battutine ficcanti, o con la lingua velenosa. Diranno che siete dei buoni a nulla, buoni solo a perdere una giornata di scuola. Per qualcuno sicuramente è così ma sta sprecando una possibilità. La possibilità di stare insieme.
Insieme!!!
 Il significato di questa parola si perde tra selfie con la bocca a culo di gallina e milioni di messaggi inviati con whatsapp. Ci fanno credere che abbiamo il mondo a portata di click invece siamo soli davanti ad uno schermo.
Abbiamo bisogno di luoghi di aggregazione, di comunicare con gli occhi, di guardarci in faccia. Di creare.
Di fare qualcosa insieme. Di stare insieme. Con gli smartphone spenti. Insieme facciamo paura!
 Insieme si crea fermento. Ragazzi e ragazzi che creano dibattiti,si interrogano, portano esperienze da poter replicare di conseguenza creano fermento. Sono lievito.
Lievito per impastare del buon pane quotidiano al posto della merda di cui ci riempiono il cervello e assopiscono i nostri desideri.
Insieme smoviamo le acque della palude in cui i gattopardisti affogano le nostre speranze.
Con il precariato tutto è stato rinviato più in la con l’età. Lavoro, famiglia, figli, una casa propria. Ci vogliono rendere degli eterni bambini ( infondo tutti invidiamo i bambini) invece dobbiamo diventare grandi subito. È un’esigenza. Il tempo è dalla nostra parte ma non è per sempre.
Beffardamente sul cancello di Auschwitz i nazisti hanno messo la scritta “il lavoro rende liberi”. L’odierna dittatura del profitto trasforma gli esseri umani in pedine. Considera il lavoratore delle risorse definite umane così come i computer sono risorse meccaniche.
Ma i lavoratori sono uomini e donne che hanno bisogno del lavoro per essere liberi. Liberi di essere ciò che si desidera diventare. Liberi di essere semplicemente ciò che si è.
Con un lavoro precario tutto diventa precario, come l’amore. Anche i sentimenti diventano usa e getta.
Formare una famiglia diventa impossibile.
La politica invece di trovare delle soluzioni inventa formule magiche. Come gli 80 euro di Renzi.
Ma non saranno gli 80 euro promessi alle neo-mamme a risollevare il tasso di crescita delle nascite se dall’altro verso si continua a tagliare il finanziamento degli asili nido.

Le politiche dei bonus, dei voucher, sono in genere storicamente politiche liberali e/o emergenziali perché - al contrario del welfare universale - si rivolgono ad una certa platea e per un certo periodo, quando invece dovrebbero parlare a tutti. Contrastammo ferocemente il bonus bebè di Berlusconi (1000 euro l'anno, quindi la stessa cifra), e siamo stati molto critici su quello adottato dalla Fornero e dal Governo Letta, proprio perché avevano il grande limite di tagliare fuori una fetta consistente di beneficiari, di rappresentare una politica spot. In altri paesi d'Europa esistono sostegni alla genitorialità, ma sono universali, sono erogati in nazioni in cui si spende 5 volte di più che in Italia in servizi sociali, esiste il reddito minimo garantito e non si rivolgono certo alle "neomamme" (e i papà?) che guadagnano meno di 1500 euro lordi al mese. Anche perché sappiamo tutti che 80 euro al mese non cambiano la vita se l'idea è quella di farti decidere di procreare. Soprattutto, si parla di tagliare altri servizi come al solito?. E' bello andare da Barbara D'Urso a dire che regali soldi in giro (80 euro in busta paga, 80 euro alle neomamme, taglio la componente lavoro dell'IRAP, adotto meno prelievo sulle partite IVA svantaggiate, etc.) e poi lontano dai riflettori andare in conferenza Stato Regioni e dire che taglierai le borse di studio, i buoni libri di testo, i trasporti per i disabili, i trasferimenti sui trasporti pubblici e la coesione sociale, 4 miliardi di spesa corrente. Ma di che parliamo? Ti do 80 euro al mese per 3 anni per convincerti a procreare, ma il figlio che metti al mondo augurati che non abbia mai bisogno di cure mediche, di supporti educativi, di prendere un autobus in periferia, perché altrimenti sono cazzi suoi.



Poi hanno anche la faccia di dire che la famiglia è messa in pericolo dalle unione omosessuali. Io non riesco ancora a comprendere in che modo il matrimonio tra due maschi o due donne mi impedisca di formare una famiglia. Io non riesco a comprendere chi trova ancora il coraggio di mettere su famiglia, siano essi etero o omosessuali, e a loro va la mia stima e sostegno. Le politiche sociali, del lavoro e formative non si possono distinguere dai diritti civili e purtroppo l’ordinamento dello Stato italiano non riconosce ai suoi cittadini dei diritti legalizzando la disuguaglianza.

Per colpa dello Stato che non riconosce diritti o non pianifica politiche sociali, ci sono famiglie di serie A e di serie B, così come ci sono lavoratori di serie superiori e inferiori. Con l’abolizione dell’art 18, il presidente Renzi, come Berlusconi e Monti, vuole rendere i lavoratori tutti uguali: dei lavoratori di serie B. anzi di serie R, R come ricattabili.

Quando il premier e segretario del più grande partito socialista d’Europa – il PD renziano, aderisce al PSE – dice che “l’imprenditore deve poter licenziare” – come e quando vuole, aggiungo io – , “che la scelta di licenziare o no un lavoratore non deve essere nelle mani di un giudice”, sceglie chiaramente il campo in cui stare (che non è quello del lavoro) e riafferma dei capisaldi culturali antichi, che proprio la famiglia politica che dovrebbe rappresentare è riuscita in un secolo di storia e di lotta a rivoluzionare. C’è ormai una deriva inarrestabile che vede tutti i partiti di centrosinistra europei farsi sedurre dalle sirene del pensiero main-stream. Non voglio chiamarlo di destra. Preferisco definirlo pensiero unico, assoluto, dominante. Questo perché nell’Europa del 2014 molti dei governi sono di larghe intese, in cui le culture politiche un tempo contrapposte si confondono l’una con l’altra. Dove le differenze fra destra e sinistra non contano più e spesso si fa pure fatica a intravederle. Un pensiero che trova la sua rappresentazione più limpida nell’idea del pragmatismo come unica bussola per orientare le scelte, nel primato della tecnica sulla politica, nel piglio sfrontato e decisionista dei suoi leader. Determinanti che cambiano i rapporti politici nella società, in cui i capi delle fazioni prevalenti, a braccetto con la grande finanza, controllano progressivamente sempre di più tutti gli snodi delle decisioni politiche ed economiche che hanno pesantissime ricadute sociali sui “popoli sovrani”.
Cambiano e tornano ad essere quelli di un tempo poi i rapporti materiali, che si determinano nel solco della regressione di un modello che diviene oligarchico e semi-feudale in cui il lavoro è senza tutele, precarizzato a partire dal rapporto contrattuale, ricattabile in ogni momento e desinato a salari sempre più bassi. Tutto ciò avviene paradossalmente proprio nel momento di massima crisi del capitalismo. E se la politica davanti a questo passaggio epocale sembra essere muta e stordita, il capitale invece si difende e si ristruttura, aggredisce i diritti e riduce gli spazi di democrazia. E gli stessi soggetti che ci hanno trascinato nel baratro, oggi ci spiegano come uscirne perpetuando le stesse politiche. Non trovando sostanziali difficoltà e ostacoli nel farlo.
Prendiamo per esempio la questione dell’articolo 18. Un dibattito surreale, che trova la sua rappresentazione mediatica nello scontro Renzi-D’Alema/minoranza PD. E non è difficile immaginare chi vinca. Questo perché per vent’anni quelli che oggi si spellano le mani in difesa di questa tutela nello specifico, sono i primi che hanno contribuito all’istituzionalizzazione della precarietà. E la loro credibilità è dunque pari a zero. Oltre alla rappresentazione mediale, ad esser surreale è soprattutto nello specifico la questione politica di questo dibattito. Per i ragazzi della mia generazione – e non solo direi – l’articolo 18 rappresenta esclusivamente un istituto giuridico che ha un altissimo valore simbolico. Niente di più però. Questo non significa che non ci spenderemo nei mesi che verranno per difendere lo Statuto dei Lavoratori e tutto quello che significa. Anzi. Siamo i primi ad affermare che è molto più ideologico chi come Renzi e soci pone il tema dello smantellamento dell’articolo 18 rispetto a chi invece come noi lo vuole difendere con le unghie. E a dirlo non sono io, ma i dati. Il CNEL – non una pericolosissima organizzazione bolscevica – nel suo ultimo rapporto nazionale afferma che in Italia licenziare è più facile che in Germania e che il livello di liberalizzazione del mercato del lavoro negli ultimi 15 anni è stato il più sfrenato di Europa, con la sola eccezione di Atene. L’idea che a scoraggiare gli investitori stranieri sia l’eccessiva rigidità delle regole in materia di lavoro è quindi poco più che una leggenda. E allora quale è la logica che lega l’abolizione dell’articolo 18 alla possibilità di incrementare l’occupazione? Nessuna, ovviamente. La questione è esclusivamente ideologica, appunto.
Con la disoccupazione giovanile che sfonda la soglia del 44%, con quella generale oltre il 12%; con oltre 5 milioni di precari dove più di 1 giovane su 2 ha un lavoro atipico, con oltre 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, la preoccupazione principale del governo Renzi è quella di cancellare quel maledetto articolo 18 che risolve appena qualche migliaio l’anno di controversie sul lavoro. Lungimirante, non c’è che dire. Vogliamo invece provare a parlare seriamente dei problemi di questo paese? Bisognerebbe smetterla di pensare che licenziando di più si crea posti di lavoro. È una mistificazione della realtà! Per creare occupazione ci vorrebbe una politica industriale seria, che manca. E ci vogliono soprattutto investimenti. Per sconfiggere la precarietà invece, non basta annunciare un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti se si lasciano intatte 46 forme contrattuali differenti. Bisogna fare di più. Iniziando per esempio a comprendere che oggi la precarietà non è solo una questione che riguarda il mercato del lavoro ma è purtroppo per milioni di persone una questione esistenziale. E quindi, una politica che si definisce tale, capace di abitare il nostro tempo, dovrebbe iniziare a preoccuparsi di come si possa garantire una vita dignitosa al di fuori del lavoro e una continuità di reddito nella giungla del lavoro a intermittenza. Ed è a partire da questi presupposti che la rete Tilt!, BIN e altri soggetti, lo scorso anno hanno sottoposto al parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione di un reddito minimo garantito anche nel nostro paese.
Come avviene praticamente in tutta Europa. Per usare gli esempi fatti da Matteo Renzi, Marta e Giuseppe (due precari idealizzati) se fossero una coppia in Olanda percepirebbero 1.319 euro mensili e se Marta fosse single sempre in Olanda avrebbe un sussidio di base di 659 euro. Se Giuseppe vivesse in Belgio avrebbe un sussidio di 755 euro, se avesse un figlio a suoi carico percepirebbe 1.006 euro e un contributo per l’affitto. Se Marta vivesse in Francia avrebbe garantiti 467 euro e un contributo eventuale per l’affitto. Se Giuseppe vivesse in Inghilterra avrebbe 303 euro di reddito di base, 715 per la casa e 377 nel caso avesse un figlio a suo carico. Se Marta vivesse in Irlanda avrebbe invece un sussidio per l’alloggio dai 300 ai 450 euro mensili e in più, in caso di necessità, altri contributi per le utenze. Se Giuseppe infine vivesse in Austria avrebbe un sussidio dai 401 ai 512 euro mensili, con un figlio a carico dai 594 ai 746 euro. I Marta e i Giuseppe che vivono in Italia invece, si sentono dire che la colpa della situazione e dei loro genitori perché sono dei privilegiati solo perché hanno dei diritti. E che quindi l’unica soluzione è togliere ai padri per dare ai figli. Ma noi in questa guerra non ci vogliamo stare. Noi chiediamo una rivoluzione del welfare sui modelli virtuosi di quell’Europa che vogliamo conquistare. Vogliamo un welfare universale. I soldi? Ci sono. Pensiamo alla pioggia di miliardi che viene erogata per gli incentivi alle imprese che in 15 anni non hanno certo creato occupazione. Le imprese avrebbero bisogno di vedersi ridurre il costo del lavoro, non di incentivi. Pensiamo ai miliardi spesi per tenere in piedi un sistema di collocamento inefficiente e obsoleto, che serve esclusivamente per foraggiare i professionisti della formazione senza collocare nessuno. Dovremmo avere il coraggio di dire poi, che l’attuale sistema di ammortizzatori sociali deve essere rivisto completamente, perché così com’è protegge solo un piccolo segmento di società e lascia fuori tutto il resto.
Tagliamo seriamente i costi della politica e della burocrazia, non nella direzione di ridurre la democrazia ma gli sprechi. Tagliamo le spese militari e con tutti i soldi che risparmiamo finanziamo uno strumento davvero universale. Senza questi presupposti non esiste Job Act che tenga. Il conflitto sociale non è situato dove viene rappresentato quotidianamente dai mezzi di informazione o dai politici che ci governano. Sta dall’altra parte. Oggi, oltre alla parola insieme e fermento dobbiamo inserire nel nostro vocabolario la parola libertà. Libertà di formarsi. Libertà dal ricatto della precarietà.

Rimaniamo insieme, creiamo fermento, sentiamoci veramente liberi

Grazie a tutti e a tutte


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